Uomini di pane
Matteo Lucca ha scelto di dare dimora temporanea ai suoi Uomini di pane in un luogo molto significativo e appropriato: la radura di San Paolo in Alpe.Siamo nel cuore delle foreste Casentinesi. Si può partire da questo dato per trovare i molteplici significati che un’opera così complessa sottende. Essa è infatti, pur nella sua smagliante chiarezza, un’opera performativa e scultorea insieme, semplice e fortemente simbolica, personale ma universale che l’artista forlivese propone nella natura in una forma inedita. Se infatti da circa due anni Lucca lavora intorno all’Uomo di pane, a San Paolo in Alpe per la prima volta l’opera si fa corale, plurale: qui diversi elementi (ben 12 sculture) dialogano tra loro e con il paesaggio che le ospita. E lo fa in un luogo che oltre al suo straordinario fascino intrinseco ne acquista un altro dovuto al suo isolamento; un luogo aperto ma raggiungibile solo attraverso un sentiero di montagna; non certo accessibile ad un vasto pubblico e dunque da conquistare con volontà, anche se non con eccessiva fatica. L’artista mette così a disposizione del pubblico il lavoro di mesi, l’idea di anni di ricerca ma chiede anticipatamente qualcosa a questo pubblico: pone una condizione. “Venite a vedere la mia opera là dove io ritengo che la si possa godere al meglio, dove sono sicuro che voi la possiate godere al meglio. Venite nella natura a scoprirla con me”.
In Uomini di pane la natura è legata all’opera anche in una accezione non solo geografica, ma anche più intima ed esistenziale. In queste figure è infatti la materia stessa, la sostanza della scultura ad assumere un ruolo nettamente naturale e simbolico per la scelta del pane, il preparato più semplice in ogni cultura e quindi sostanza allo stesso tempo naturale e artificiale. Il pane ha per Matteo Lucca una potenza tale per cui: “vivifica la scultura,” e rende meno artificiale il calco; esso è quindi è elemento vivo che carica con tutta la forza della sua storia e della sua simbologia queste effigi umane.
A San Paolo ci si trova infine di fronte ad un’opera fortemente collettiva nella quale però serialità e unicità si rincorrono ed entrano in cortocircuito. Certamente individuale, anzi personale è l’idea di partenza: la matrice, lo stampo da cui è generata ogni scultura è il calco del corpo dell’artista stesso, che ha pensato a queste figure come ad alter ego, una forma simbolica per offrirsi, agli altri e alla natura, (da qui il gesto delle mani protese) attraverso una sorta di sacra consustanziazione. Poi però l’opera acquista una dimensione corale, come si diceva, quasi seriale per la ripetizione di questi personaggi sempre dalla stessa effige. Almeno in teoria. Perché a ben guardarle, una per una, ci si accorge che ancor prima del paesaggio che ora le circonda un’altra Natura si è impossessata di loro: il fuoco, il fumo, il lievito, il calore hanno dato a ciascuna un’impronta loro, una piccola espressione, un tono di colore diverso che le rende personali, anzi fa riemergere l’individuo che è in loro.
Marco Servadei Morgagni
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