Selvatico 14
Selvatico/Atlante è una mostra, o forse sarebbe meglio dire un arcipelago di mostre per la complessità, le ramificazioni ed estensioni del suo disegno.
Sono collegati sedi museali, case, palazzi disabitati e negozi sfitti grazie al lavoro, alle opere e ai differenti linguaggi di molti artisti chiamati a rispondere contemporaneamente sia alle risonanze ed echi del luogo, che alle domande, stimoli e inneschi del progetto espositivo e del suo titolo e, non in ultimo, alla presenza stessa degli altri autori con cui condividono un tratto di strada. Il disegno della mostra si articola così attraversando e congiungendo più spazi espositivi.
Una mostra sulla pelle della scultura e le superfici, sul disegno, sulle cose quasi naturali e sulla pittura sempre
Atlante dei margini, delle superfici e dei frammenti è un titolo che, più che svolgere funzione di tema, fornendo risposte e soluzioni più o meno facili o probabili, sta a indicare una possibile direzione dello sguardo, una chiave di lettura e orientamento allo spettatore, un ambito, un andamento nell’aria e un sentire condiviso che ci è parso riscontare in pratiche e modi di fare anche all’apparenza molto distanti tra loro.
Selvatico non è solo una mostra collettiva, differente e anomalo il suo costruirsi, qualcosa che assomiglia al formarsi di una comunità, per quanto provvisoria, precaria ed effimera, con l’esposizione che cresce e prende forma precisandosi e definendosi insieme e con gli artisti; non è la mostra di un curatore o un progetto a tavolino, la dimensione della scommessa e della sorpresa sono sempre presenti e accadono nell’incontro tra luoghi persone e cose.
Un organismo funzionante per relazioni, incastri e intrecci, dialoghi, rimandi e connessioni. Un sistema di innesti e congiunzioni, un equilibrio centripeto e centrifugo fatto di affinità e contrasti, compromesso esatto tra le opere e gli autori, gli spazi e le persone. Un incontro plurale fatto di singolarità. Un dialogo fisico, un guardarsi reciproco negli occhi. Qualcosa di simile a una costellazione, a una catena o collana di pietre diverse per forma, peso e colore.
Una mostra che in questo suo nuovo episodio inquadra e mette al centro, già a partire dal titolo che la orienta e guida, una contraddizione interna, aperta, pulsante e vitale, una tensione o frattura con cui fare i conti e che ci sembra attraversare molte delle pratiche, delle indagini e ricerche, dei modi di vedere e fare, delle reazioni e dei movimenti delle arti visive, dei suoi processi e dei suoi meccanismi contemporanei: da una parte l’immagine dell’atlante, l’archivio e catalogo che si fa mondo, il corpo geografia, la mappa, gigante che regge la sfera celeste, prima vertebra su cui poggia la testa, e quindi una certa tensione enciclopedica o dell’opera che prova a contenere o essere parte per il tutto, storia del mondo per oggetti; dall’altra l’attrazione invincibile e risucchiante nei confronti del particolare, il gorgo del dettaglio, la superficie e la pelle, margini e frammenti, derive e sperdimenti, accumuli, buchi di luce, abissi in miniatura, segni minimi che possono rallentare e sospendere e allargare il tempo, qualcosa che assomiglia da parte dell’artista al bisogno di spostarsi di lato, un rimanere volontariamente un passo indietro, lungo i bordi, rapiti dalle cose da niente che di solito non vediamo o sorvoliamo incuranti. Un solco della mente vorticante in cui inciampiamo, scomporsi delle membra. L’anatomia. Una divaricazione e un processo di risignificazione poi.
Atlante è la volontà testarda, l’ossessione, la tensione al grande e all’universale, il compito schiacciante di una vita, con fatiche e lentezze, stupori e meraviglie di collezionismo, naturalia e mirabilia; l’aspirazione, l’ambizione o il desiderio di poter costruire uno sguardo nuovo e un pensiero enciclopedico capaci di comprendere, abbracciare e contenere sciami, complessità e moltitudini, pianeti perfetti, riconducendo infine queste pluralità a una forma unica e irripetibile, a un sistema ed equilibrio di segni, a un alfabeto ancora, memoria invincibile e progettualità che tutto ordina, cataloga, archivia e mette a posto. Il compito per certi versi infinito e inutile, frustrante, sconfitto in partenza ma necessario anche, e commovente, di mettere ordine al mondo, di metterlo in salvo, e provare a comprenderlo o sentirlo, classificarlo e sorreggerlo infine, di farne parte, di dare nomi alle cose congiungendole, aggiustandole dove serve, qualcosa che assomiglia alla coltivazione di un giardino, connettendo e ordinando i frammenti in sistemi e insiemi dotati di senso e sensi. Bambini e animali. Le piante. Collane di perle, rametti, conchiglie e ossicine.
A fare da controcanto a tutto questo, dall’altra parte, la difficoltà e impossibilità tangibile, sperimentata, di abbracciare questo imprendibile tutto, mare, oceano di informazioni e immagini, tempi e memorie, ossa e ceramiche e altre cose sepolte che ci sommergono; e lo sperdimento drammatico che ne consegue, l’immobilità paralizzante talvolta, nel cominciare qualcosa, nel voler cercare di decifrare un mondo che invece sfugge, si parcellizza in polveri, fatto com’è sempre più di frammenti e particolari galleggianti sospesi, attimi spezzati e rotti, di velocità e scarsità di tempo che non ci permettono di approfondire. Tempo che ormai il pensiero unico capitalista ci ha sottratto praticamente del tutto, organizzando e riempendo definitivamente e mortalmente ogni nostro momento. Dettagli e pezzi sparsi, unità molte e incomprensibili, parti e resti, cose come esplose e irradianti o alla deriva, e poi piccoli universi nascosti, dimenticati e abbandonati in cui forse resiste ancora qualcosa che possiamo chiamare bellezza. Un incantamento. Vuoti dotati di senso e assenze da cui ripartire.
E mondo che si fa labirinto. Ricondotto ad astrazione di mappa. Proiezione mentale. Nuvole.
Tracce e impronte.
L’immaginazione ancora e il fantasticare come arma che spalanca mondi facendone di nuovi. Texture e disegni. Pazienza della trama e delle tessere. Radici e rizomi. Vento che scuote ed entra a scompigliare e incrinare le superfici. Pieghe impreviste. Pesantezza e leggerezza capovolte. La carta superficie sensibile e membrana. Il disegno ancora come una delle chiavi. Il rumore delle onde.
É sulla superficie che resta, affiora o prende forma, sottile come pelle, questo oscillare continuo e andirivieni di vuoti e pieni, dalle galassie alla polvere e ai pulviscoli sospesi nell’aria, dalla sabbia all’idea delle montagne, anelli di saturno, resti accartocciati metallici, plastiche, cortecce e vetri, relitti. Che è dalle superfici che riparte questa mostra, da questo piatto su cui si gioca la partita, scivolando poi su spigoli e profili, curve e sottosquadri di una forma inspiegabile e all’apparenza non finita. Ambiguità che significa desiderio, visione e movimento. Il vuoto parte integrante come sempre.
Perdersi nel dettaglio allora, entrarci e dargli spazio. Occuparsi e volgere lo sguardo verso ciò che resta indietro o lungo i bordi, o dietro. Frattaglie e semilavorati del mondo, echi e ultime nature. Modi di vedere tattili. La nostra attenzione e il nostro tempo, qualcosa che assomiglia a un tentativo di riappropriarsene e che ci permette al tempo stesso di rincontrare empaticamente ciò che sta fuori di noi. Il disegno che prepara lo spazio per l’incontro. Il disegno come predisposizione all’ascolto. Il mondo e le cose che ci parlano. Avanzare.
E arte che si imparenta con altri modi di vedere, nutrendosi, giocandoci e confondendosi con questi mondi altri e pratiche, forse con la speranza di rivestirsi di un’aura di credibilità maggiore rispetto alla sua perfetta inutilità minerale, per affiancare racconti alle immagini di cui forse a ragione non ci fidiamo più, o per cortocircuitare la finzione e smascherarla elevandola a potenza, facendo di questo inganno confine e crinale che separa e congiunge al tempo stesso: la storia e la geografia, le scienze naturalistiche e il mondo vegetale, altre memorie e intelligenze, matematica e proporzione aurea, l’archeologia e l’antropologia per ricucire storie perdute e arginare le lacune e voragini della memoria; i buchi nella trama che lasciano per un attimo vedere di là, oltre, dietro.
Artista esploratore. Cacciatore raccoglitore. O dell’assorbire catalizzatore.
L’importanza di essere piccoli, minuti, fragili e silenziosi per poter ancora accorgersi del mondo meraviglioso e del momento a tratti perfetto. Una specie di grazia resistente e, al tempo stesso, una sorta di argine al perdersi siderale nel dettaglio disegnando mappe che hanno lo scopo di suggerire immaginazioni possibili, connessioni e orientamenti, innescando movimenti e fantasie. Cuciture e slittamenti delle percezioni, dall’io all’altro e al mondo possibilmente.
Ambiguità delle forme e delle cose. Punti di vista e mobilità. Metamorfosi. Ossessioni e ritrovamenti. Il presente. O il futuro ancora.
Così, alla luce di tutto questo è lecito pensare a qualcosa che assomigli a un atlante ossimorico dei bordi, dei confini e dei margini, a uno sguardo che diventa ora presa di posizione politica, enciclopedia sentimentale del frammento più o meno inutile e dei pezzi sparsi, a un sistema capace di indagare, innamorarsi e mettere forse ordine alle sfrangiature e alle slabbrature, all’incrinarsi e incresparsi delle superfici, ai piccoli terremoti quotidiani e alle pieghe del tempo. Un tempo fiume e sua immobilità ciclica che ritorna identica e immutabile nella pratica quotidiana e artigianale dell’artista, foreste di ombre, fantasmi, raggi, fasci di luce e meridiane a scandire le ore e i contorni. Un canto ai resti, alle cose da niente e bambinesche, spazi non ancora del tutto violati o dimenticati completamente, riserve di libertà e bellezza su cui poter ricostruire e ripartire ancora una volta. Il racconto che tiene e salva , ci fa superare la notte e ci riporta a casa.
E questo in fondo è uno dei compiti dell’arte, da sempre, mettere ordine al mondo e resistere alle forze, fare da argine allo sradicamento e perdita, alla dissoluzione e smarrimento dell’io e della presenza, occuparsi delle ferite e delle rovine, dei corpi, posare uno sguardo che si fa carezza e comprensione, e su questi tentare innesti e guarigioni per ributtarli poi nel mondo ricaricati di senso e mistero, magici ancora.
Talvolta passando anche per un processo di congelamento, abbattimento con il freddo, necessario per fare silenzio e pulizia, un rigore di bianco e gelo. Durezza cristallina. Calore di pensiero e mani per riportare in vita nuovamente. Incendi. Il fuoco a far crollare e brunire. Carbone. Unghie e ossa. Foresta nera, antico insediamento. Un processo di attenzione che diventa terapia e progresso, possibilità di avanzare o continuare. Mancanza che muove. Fame.
Ma come innamorarsi poi e darsi al frammento senza perdere inesorabilmente una visione d’insieme e giusta distanza, con il rischio di sprofondare nella decadenza e accumulo sordo ed esploso di parti, è una delle domande che si pone l’artista, la sua sfida e disciplina: accumulare e sedimentare; fare spazio e liberarsi, e liberarsi interno delle forme, affioranti infine dal blocco o da un processo di distruzione più o meno lento; lavorare sull’innesto, fare esperimenti; casualità e materia; rotture e curve, e profili mai visti.
Certo il potere degli oggetti e il collezionismo colonialista bulimico è sempre dietro l’angolo. Cambiare i nomi e le parole, non usarle per un po’, metterle in quarantena, spostarne sensi. Rischiare comunque l’eccesso.
Una pratica del capovolgimento che passa tra molte delle opere e dei pensieri qui presenti.
A queste domande e contraddizioni proviamo qui, non tanto a dare una risposta, ma a richiamare e connettere ambiti e ricerche, come sempre con andamento plurale, e contraddittorio talvolta, perché, nel cercare affinità e similitudini, si nutre e alimenta nel contrasto; una risposta visiva, aperta, sfaccettata e molteplice che si affida al lavoro e agli sguardi di molti artisti, di varia provenienza geografica e anagrafica, con percorsi e storie differenti, autori scelti e invitati a far parte del percorso espositivo perché in risonanza, vicinanza e sintonia con le domande rilanciate dalla mostra.
E suggestioni che, in un vero e proprio cortocircuito, sono esse stesse emerse dalla ricerca e dalle esplorazioni di questi artisti, piena e fertile circolarità che rende complicato e non sempre possibile definire chi e cosa sia venuto prima, se l’interesse verso alcune opere che si sono incontrate, o se invece siano il tema o l’umore individuato ad aver orientato sguardi e attenzioni.
Tutti questi artisti, in forme e modi differenti, possono essere ricondotti a un ambito di convergenza comune, un’architettura di risonanze e di affinità che mette al centro del lavoro e della sperimentazione una dimesione artigianale e, di conseguenza, un certo grado di imperfezione, imprecisione ed errore; artigianalità intesa qui come processo, vitale, insostituibile, sensuale e drammatico, di scoperta e approccio al mondo, una crescita che passa attraverso una curiosità mai sommersa e perduta nei confronti dei materiali e della materia e dei suoi meccanismi imprevisti, coaguli, spezzature, morsure, fioriture e corrosioni, crepe e rotture, patine e muschi, forme semplici e complesse, superfici piatte o barocche come marmi. Nervature e venature. Materia che innesca e permette il succedere delle cose e affiorare di storie imprigionate, l’avvenimento imprevedibile, l’incontro vitale e lo scivolamento. Suonerà un po’ eccessivo forse, ma davvero qualcosa che qui si imparenta con la preghiera. Un velo quasi trasparente.
Linguaggi e modalità operative diverse che proprio per questo atteggiamento di fiducia nei confronti della materia, o di sfida ai suoi limiti, peculiarità e prerogative, rappresentano anche una certa idea di lateralità, o se si vuole un’alternativa necessaria rispetto a processi tecnologici, una via calda che si muove in territori marginali e ai confini di grandi sistemici economici e budget importanti di produzione che sembrano essere diventati requisito irrinunciabile; una periferia dello sguardo e una pratica del piccolo e marginale che necessità di attenzione e tempi differenti, con andamenti quasi naturali, ora rapidi, ora lenti, archeologia quotidiana, crescite, la volontà testarda di occuparsi, con mezzi poveri ed economici e abbastanza semplici e primitivi, di ciò che rimane indietro e ai lati. Lo scarto. Slittamento e incontro. Sfumare e confondersi, scivolare nell’altro. I confini che spesso saltano sovrapponendosi sbiadendo.
A differenza delle ultime due edizioni di Selvatico che si concentravano quasi esclusivamente sulla pittura, si apre e si guarda in questo nuovo episodio, a un ampio ventaglio di linguaggi e pratiche che presentano, all’esame e ricerca dell’individuazione di uno dei tanti fili che collegano e attraversano e congiungono tra loro le opere, l’intersezione e lo scambio continuo tra i piani, le cose e le materie come una delle modalità ricorrenti, che non è mai un metodo, ma un processo che porta a una non sempre facile o possibile separazione e definizione, univoca e certa, come uno degli umori e meccanismi prevalenti.
Un’ambiguità ricercata che è idea del mondo, dubbio felice e fertile, una sorta di ambivalenza che è del mescolarsi mimetico, natura e artificio, o della finzione che mette in discussione i modi di vedere e le abitudini consolidate, dove il disegno diventa scultura, la scultura e la sua pelle si capovolgono adattandosi ai ritmi della superficie pittorica, una sorta di rinuncia alla forma univoca. O del suo compiersi e accadere sempre provvisorio, minato internamente.
La fotografia incerta e il fantasma, la pittura come memoria e sguardo al futuro, campo di battaglia e corpo, lo specchio, il riflesso e le metamorfosi, la scultura eroica resistente, e un tentativo geografico di orientamento che porta inevitabilmente allo sperdimento del labirinto. Ancora autoritratti.
Non tanto o non solo una poetica del frammento, piuttosto un’impossibilità, voluta o meno, a ricondurre il mondo a un’unità incrollabile e fiduciosa di punto di vista e fuga unico; e mondo che si parcellizza ed esplode, e si nasconde, e rifugia bellissimo, irradiante e resistente nel dettaglio, nella cosa di poco valore, nel processo imperfetto, nell’errore vitale, nell’inciampo, nelle pieghe e negli interstizi, nelle zone d’ombra, nei resti e nelle rovine, nel microscopico e nel gesto artigianale che significa attenzione e attesa, nelle tracce e impronte, nelle memorie vegetali, nelle patine e ruggini, nelle immaginazioni che scaturiscono dall’incontro felice e scintilla innescata dall’affiancarsi e scontro tra i materiali e le storie.
E su tutto il disegno, memoria e appunto, visione e immaginazione, passaggio e pratica per altri mondi possibili, siano questi progetti senza senso e irrealizzabili, o il disegno dal vero e la copia come ascolto e crescita, modestia necessaria, ancora traduzione del pensiero e suo tradimento.
I margini delle cose, i contorni e i bordi del campo, le sue righe; forme ambigue aperte, smagliature, segni e tecniche ibride che ci tirano in ballo chiedendo a noi di completare l’operazione, la forma incerta e il pensiero, progetto latente e in potenza: immaginare, chiudere e proseguire o abbandonare la forma, fidarsi, perdersi ed esplorare le superfici, seguire le tracce e le impronte, gli indizi, le muffe e fioriture. Macchie e aloni. Materia grassa. Intonaci. Sovrapitture e distacchi. Sindoni, veroniche e sinopie. Il tempo e le sue cicatrici, ferite, intenti mimetici e l’inganno a stanarci e portarci allo scoperto. Sguardi i nostri a cui si chiede uno sforzo di comprensione che ricalibri la fiducia e la cascata dei sensi.
Frammenti assemblati secondo nuove regole e ordini sconosciuti, linguaggi da esplorare e inventare, segni e lettere di alfabeti ancora misteriosi, idee del mondo e memorie. Il frottage, le texture, la ripetizione. La geometria impazzita che scarta e devia. Combinare e combaciare.
La pelle della scultura. Il bianco e il nero, e il grigio sensibile. L’ombra.
Quasi paesaggi, il corpo panorama sorvolato e ravvicinato, il corpo come paesaggio, il paesaggio come corpo; i nostri volti sconosciuti, imprendibili segni da decifrare e gesti quasi alle origini; o forse l’ultimo gesto o pennellata possibile, isolata, salvata e risonante. La curva bella: ramo, osso, fiore, piuma e foglia. Capelli e lane. Pettini. Gioielli e armature. Lenzuola. Tovaglie. Abiti. Vasi.
Colori pochi come asciugati e stinti. Colori di grotta e caverna. Semmai violenti ad accendere e infuocare come bagliore.
Pratiche di attraversamento. Col corpo capisco.
Disegno e scultura. Galassie. Arte primitiva.
Cotignola [inaugurazione sabato 19 o 26 ottobre]
Museo Varoli/Palazzo Sforza
Piano terra
stanza 1 Thomas Scalco | Luigi Massari
stanza 2 Elena Hamerski | Ilaria Cuccagna | Elisa Bertaglia
stanza 3 Fabio Romano
Primo piano
Matteo Lucca | Paolo Migliazza
Secondo piano
CaCo3 | Silvia Vendramel | Giorgia Severi
[luogo e spazi ancora da definire]
Valentina D’Accardi | Luca Piovaccari
Federico Guerri | Francesco Geronazzo |
Ilaria Margutti |
Giorgia Moretti
Spazio corso sforza 27
Chris Rocchegiani
Palazzo Pezzi
piano terra
Ettore Frani | Giovanna Caimmi – James Kalinda | Chiara Enzo | Giulia Manfredi | Alice Padovani
primo piano
Giovanna Sarti | Elisa Muliere | Maurizio Bongiovanni – Barbara Fragogna | Mattia Noal – Alice Faloretti | Sarah Ledda
[luogo ancora da definire]
Giulio Catelli | Alessandro Finocchiaro |
Annalisa Valicelli
In principio era il sacro. Poi, si è rivestito di forma umana, incarnata nel pane. Un percorso dalla spiritualità alla materia che si fa prototipo della creazione e si ricongiunge con l’archetipo della madre. E allo scandalo dell’azione dei giusti nella storia. Il mio lavoro sulle figure di pane ha fatto di queste tappe il suo lievito e si presenta a “Selvatico” con una polisemia arricchita.
Tutto è cominciato da una meditazione del buddismo tibetano sul superamento dell’ego tramite l’offerta di sé, che si è tradotto in un’eucaristia di corpi di pane serviti come pietanza. Di qui, l’esperienza sacrale ha inglobato la dimensione umana. Il dono supremo di sé non può prescindere da uno sguardo implacabile sui propri limiti e conflitti: di qui tutto il bagaglio di un’intimità sofferta, visibile nelle crepe, nelle bruciature e nel doppio volto delle statue. Dalla bassezza allo splendore, perché è l’offerta della propria umanità a illuminarne la sacralità. Questo dualismo vive nel dialogo tra il pane, che si racconta attraverso la forma, e la forma, che si manifesta nella semantica millenaria di cui il pane è portatore. Dall’orizzonte intimo di offerta del sé, il processo è sfociato a contemplare la complessità dell’umano, osservato nell’atto di farsi corpo. Ed ecco che scaturisce l’indagine sul processo creativo in sé, dove l’azione dell’artista si limita a porre le condizioni di esistenza dell’opera.
Tutto il resto va da sé, nel ventre materno del forno, dove la scintilla di vita germoglia e porta alla luce la rivelazione di un incontro inatteso. L’esito di questo percorso torna così a congiungersi alla “madre” e i fili si riannodano intorno al primigenio corpo femminile che è pane e dimora di ogni creatura. I palmi protesi delle figure di pane sono ideali porte di accesso alla casa del corpo: la continuità tra questa pluralità di ispirazioni e l’accoglienza salvifica di Luigi Varoli e dei cotignolesi, durante le persecuzioni razziali, è arrivata senza forzature. “Azzimo 41” condensa tutto questo: la forza di un gesto di nutrimento che lascia un segno indelebile.
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