Sciami
A cura di Annamaria Bernucci, l’esposizione è organizzata presso il MUSAS – Museo Storico Archeologico, Santarcangelo (RN).
Sciami migranti
Annamaria Bernucci
Nella Naturalis Historia, Plinio narra che un ronzio di prima mattina, simile allo squillo di una tromba, dà la sveglia alla colonia ed un altro la sera ne decreta il riposo. La colonia in questione è quella delle api che costituiscono di per sé un richiamo fortissimo all’idea di attitudine operosa e di un affaccendarsi creativo. Attorno alla loro vita ruotano talmente tanti significati da farne un paradigma universale. Insomma un esempio da prendere a modello per ripercorrere con una diversa tensione dinamica uno spazio strutturato ma potenzialmente elastico come quello museale.
Ciò che ne è scaturito è un progetto formulato sull’idea di relazioni contestuali, ovvero di un processo artistico che diventa sciame imprevedibile, inconsueto, composto dalle opere di Leonardo Blanco e di Matteo Lucca. I quali innescano un esercizio di seduzione, di tensione diretta, interloquendo con le collezioni esposte: scardinano gerarchie, manipolano lo sguardo dell’osservatore, azionano un sofisticato dispositivo che sovverte e contrae la linearità del tempo.
Un meanstream che si svela subito e cioè: relativizzare il passato, senza censure; spostare il focus sulle mediazioni possibili tra le opere e gli spettatori; concentrare l’attenzione sui materiali utilizzati. Entrambi usano materie massimamente naturali, come il legno o il pane o l’argilla o strutture leggere ad alveoli. E come l’ape – artifex naturae per antonomasia – si adoperano e agiscono.
Un sistema di sotterranee energie sembra coltivato sia da Lucca che da Blanco e, al di là di trasversalità interpretative che tornano a più riprese nella dimensione fluida e cangiante degli interventi che si sono succeduti, si avvale di un gioco spontaneo, fatto di confronti e di equivalenze sensoriali. Un sistema di memorabilia, costituito da materiali e forme, includendo l’agire artistico, si affaccia. Ecco allora, ad esempio, le mani di pane modellate da Lucca, unite in concava cavità come una ciotola per sorseggiare l’acqua, rispondere all’intreccio e alla gestualità delle mani dell’Angelo e dell’Annunciata dallo sguardo pudico dipinto dal Bistolli. appaiono come un insolito still life disposto su una consolle barocca sottostante il dipinto; ecco l’avvitamento di minuscoli frammenti metallici, lingua di fuoco imbizzarrita come la danza di uno sciame uscito dall’arnia animare i camini di Palazzo Cenci, attivati da Blanco come reinvenzione di storie e narrazioni.
Nel frattempo il museo si svela, reagendo e scoprendo energie autopoietiche, si trasforma in una vera e propria piazza del sapere e luogo di incontro, rompendo le categorie gerarchizzate del tempo. Il suo patrimonio silente prende respiro e si apre a un richiamo partecipativo attualizzando gli sguardi, le relazioni del vedere e, più ancora, dell’osservare. La contrazione della linearità cronologica non significa un arresto di lettura, ma rendere relativo e paradossale il rapporto con la contemporaneità.
Sciami si trasforma in esperienza estetica, crosspollination tra linguaggi, per quella capacità che hanno oggi gli artisti di muoversi da un territorio all’altro, senza che sponde o gerarchie ostacolino il loro concedersi a discipline diverse. L’idea che sorregge Sciami è quella di disporre di dispositivi efficaci, spore fertili per rigenerare luoghi cristallizzati dalla fissità museografica.
Le forme artistiche, anche nella loro componente più contaminante, si trasformano e si dilatano in una convergenza di sensazioni tattili, di eventi e di materiali, di saldature, di incroci e posizioni differenti; quelle stesse forme generano una riflessione teorica intorno alle proprie pratiche e al loro stesso svolgimento. In queste stanze ci si troverà faccia a faccia con una sottile ambiguità, con la ambivalenza delle emozioni, con le incertezze di tempo e luogo che un insieme di coincidenze e di indizi faranno incontrare, accostando tra loro due artisti e due percorsi.
Sciami è alla fine un percepire e un addentrarsi nei territori del tempo e dello spazio.
Leonardo Blanco
C’è un tempo che ha il senso diacronico della storia come dimensione lineare della memoria (il museo) e c’è un tempo del frammento, un tempo puntiforme che si esprime contingentemente: il tempo dell’opportunità e dell’occasione che rimanda al presente, il momento della necessità, dell’hinc et nunc. L’arte nasce dall’arte e all’arte ritorna.
Leonardo Blanco si concede una sua particolare amicizia con gli oggetti e i materiali che tratta. Da sempre l’espressione artistica è stata un’interfaccia tra pensiero e téchne, impulso che oscilla tra l’indicibilità del gesto creativo e l’abilità esecutiva. E il suo è un sapere della prassi che concilia le forme con la capacità di comunicare.
L’insieme delle installazioni di Leonardo Blanco è rappresentato da totem realizzati con legni di reimpiego la cui funzione originaria era destinata al trasporto e alla protezione di beni fragilissimi. La loro riduzione essenziale, propria delle strutture minimali, li trasforma in congegni che, pur transitori nella forma, sono capaci di generare nuove relazioni di spazio e di significato.
Sono ora diventati ponti di collegamento, appendici di continuità tra la vita sospesa del presente con la vita passata che attorno si concretizza nell’esposizione museale.
Come da alberi cavi dotati di un orifizio segreto nel tronco, generativo di vita, dai totem scaturiscono forme libere e aggettanti, dall’articolazione scalena e mossa, la cui superficie composita traluce di particelle metalliche, simili a tessere musive accostate. Una silenziosa attesa li aveva avvolti. Un’attesa che non è un vuoto o una vertigine ma un apprendistato a vivere.
Ecco allora flussi sinuosi come sciami in movimento che escono carichi di forza energetica, dall’ombra, dal cuore di un favo segreto. Estensioni pronte a dare continuità di vita, forme che incorporano aspettative e proiezioni future trasformandosi in espressione enigmatica del reale.
Nell’abbracciare i territori dell’aniconicità, a lui congeniali, Blanco avvia un sorvegliato rapporto tra spazio e forme, tra sfondo e superfici. Accade nelle sue tavole pittoriche, dove si distendono strati liquidi di cromie che hanno reclamato tempo e lunghe attese per rapprendersi, in trasparenze sovrapposte, accade anche in questi favi che rimangono in attesa di un completamento.
Il colore è un vettore usato in senso metamorfico, si muove come se fosse sempre sul punto di esplodere, crocevia di segni, tensioni, spazi. Su quella pittura incespica a volte un grumo denso che si coagula e si agglutina in rilievo. Lo stesso segno che si va depositare in alcuni dei totem che come sentinelle sono in ascolto dei richiami e dei riverberi provenienti dallo scenario delle collezioni permanenti. O in ascolto di un ronzio lontano.
Matteo Lucca
Nel percorso museale si affacciano altre sentinelle uscite dalla custodia silenziosa di un calco di argilla, sono gli uomini e le donne di pane di Matteo Lucca elargiti in una successione che prende di mira gli ambienti archeologici sino a confondersi con i reperti e il materiale fittile.
Embricando il ‘corpo di pane’ nell’edificio di una carcassa di argilla che a sua volta affronterà il fuoco, Matteo Lucca svela l’intrico di relazioni che lega il tema del corpo umano all’universo della scultura. Non solo materialmente, per i successivi passaggi che vedono l’impasto malleabile racchiudersi in un guscio che lo proteggerà, non solo nell’innesto al vecchio vocabolario della scultura, concepito come relazione tra spazio e oggetto, ma nella sublimazione di una sfida con la sostanza, fatta di acqua e farina. Cioè pane, cibo sacro, segno culturale, nutrimento primario ed atavica esperienza cognitiva. Quelle carcasse d’argilla appariranno come golem misteriosi, e cioè «embrioni», «materia grezza» come dice l’etimo della parola e perciò origine progettuale che marchia il disegno dei corpi. I volti sono autoritratti tracciati o meglio modellati più volte, repliche ostinate dotate di piccoli scarti o variazioni minime, come se questo volto-custode sfidasse lo spettatore. «Nell’invenzione del ritratto -scrive Jean-Luc Nancy – il soggetto non si è dato il piacere di una immagine, ma si è assicurato la certezza di una presenza (la sua): in essa si è inventato»
Prendono vita sculture a grandezza naturale, dove l’abilità di Lucca entra in relazione con l’imprevedibilità dei risultati offerti dal processo di lievitazione e di cottura degli impasti che, di volta in volta, trasformano la materia, tra fedeltà al modellato e metamorfosi forgiate dal fuoco, in apparizioni solennemente fragili e potenti. Un azzardo nel corpo delle forme, incrinate nella loro integrità, cosparse di cretti e fenditure annidate all’interno, un eterno sospeso, testimonianza della caducità, attraverso un materiale che è cibo e segno.
L’attrazione che ne nasce scaturisce dalla forza della visione e di ogni altro percepire su quelle superfici rugose che rivestono una pienezza effimera, edibile, forme dentro le quali il biós ribollente del pane diviene figura comprensibile alla mente.
Una galleria di corpi trasfigurati, come un racconto antico che custodisce memorie e sortilegi, diviene pretesto per una riflessione sul destino e la fragilità, sulla consumo del corpo come mistero e come atto partecipativo. L’obiettivo è che può essere usato attraverso azioni perfomative reali, cioè realmente mangiato. Il pane che si dà e offre vita.
Lucca si abbandona all’urto del concreto. Mette in campo una epicità che è fisica e chimica, fatta di combustione e di impasti vitali che diventano corpi e forme dalla superficie tattile, traslucida, dalla mollezza fragrante e aziona un rapporto simbolico con lo spazio circostante.
La plasticità è dinamica, vagamente barocca, come i tormenti dei santi martiri che attendono redenzione: figure di uomini e di donne, seriali e ieratici in una fissità fuori dal tempo, dispiegano paradossalmente una energia convulsa, tra la monumentalità dei loro corpi arsi e anneriti dal fuoco e la possibilità della loro consumazione, espressione di offerta e condivisione. Un convivio simbolico, che allude alla vita risorgente e che appaga desideri di conoscenza.
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